Torniamo alla domanda che c’eravamo posti nella prima parte dell’articolo: si deve correre in avampodalico (sulle punte) o retropodalico (sui talloni)? La risposta è stata: dipende. Ho anche scritto che la priorità nel podismo è il risparmio metabolico. Quindi non c’è bisogno di chiedere al proprio corpo quali strategie userà perché questo avvenga, la nostra è una macchina così perfetta che ci risponderà nel modo più efficace senza la necessità di porgli dei quesiti. È altrettanto vero, però, come già ricordato, che la scelta tra punta o tallone può essere determinata da aspetti che riguardano certe piccole correzioni frequentemente necessarie e peraltro legate ancora all’aspetto del risparmio metabolico, quali, per esempio, velocità della corsa, frequenza del passo e ampiezza della falcata, nel rispetto della geometria articolare del tutto individuale del soggetto e secondo il livello prestazionale dell’atleta.
Corsa veloce o podismo?
La distanza è un elemento determinante per valutare il risparmio metabolico. Di cosa stiamo parlando? Nella corsa veloce (sprint), e nella maggior parte delle corse in pista, la corsa è avampodalica. Nel podismo o nel jogging la corsa avampodalica è statisticamente più rara nelle distanze più lunghe, proprio in considerazione della velocità che viene sviluppata, che determinerebbe un controsenso in termini metabolici, cioè un’eccessiva dispersione di energia, soprattutto se il nostro fine è quello di correre per molti chilometri. Va necessariamente ricordato inoltre, che un recreational runnernon ha le caratteristiche biomeccaniche, cardio-vascolari, metaboliche ecc. di un runner professionista, e quindi potremmo fare ulteriori approfondimenti a riguardo…
E per quelli che vanno forte?
In questo caso il discorso cambia. Alcuni studi hanno rilevato che incrementando la velocità della corsa, e questo non è certo controintuitivo, il risparmio metabolico si muove a favore della corsa avampodalica. È stato rilevato che quella soglia è di poco superiore ai 4 min/km, velocità che non tutti i podisti riescono a mantenere per 10, 21 o addirittura 42 km. Quindi, secondo questi studi, il risparmio metabolico, in termini di appoggio avampodalico e retropodalico, avrebbe una definizione precisa correlata alla velocità. Questo però non vuol dire che chi corre sotto i 4min/km debba necessariamente essere avampodalico, o che riesca ad esserlo nelle lunghe distanze. Gli studi a riguardo, infatti, evidenziano che nelle maratone la stragrande maggioranza (superiore al 90%) dei podisti è retropodalica, e che quei pochi che non lo sono ai primi chilometri lo diventano quasi sempre negli ultimi.
Ma se un runner corre in avampodalico anche a basse velocità?
Non ci sono problemi. Se il tipo di corsa è naturale e non imposto, o frutto di adattamenti lenti e graduali, probabilmente il runner non manifesterà sovraccarichi, ma è probabile (e, come ho detto prima, rilevato con studi) che su distanze superiori ai 20-30 km adotti, spesso inconsapevolmente, un tipo di corsa retropodalica per favorire un “diverso” risparmio metabolico dettato dalla fatica muscolare che tale corsa comporta, e sempre come conseguenza di un determinato livello prestazionale.
E un podista veloce può essere retropodalico?
Certo che sì, tra i maratoneti veloci molti sono retropodalici, ma uno sprinter sarà esclusivamente avampodalico: nello sprint (100 e 200 m) il risparmio metabolico non è prioritario.
Nelle lunghe distanze invece il risparmio metabolico è una priorità, ma le molte variabili che determinano appoggi retropodalici, avampodalici, mesopodalici o addirittura misti rendono il gesto atletico molto vario e non necessariamente coerente con speculazioni fisiologiche di risparmio metabolico. Questo spiega perché ci siano podisti retropodalici veloci e podisti avampodalici lenti.
Si può cambiare il proprio modo di correre?
Sì, ma bisogna fare attenzione. Purtroppo, per effetto di informazioni scorrette e non scientificamente provate, assisto spesso a volontari cambiamenti del proprio modo di correre, cambiamenti che determinano sovraccarichi pericolosi quanto del tutto inutili, oltre a costosi dispendi metabolici. In condizioni di extrema ratio, ho incoraggiato e guidato, talvolta solo temporaneamente, il cambiamento verso l’avampodalico in soggetti retropodalici, per ridurre un eccessivo carico per problemi di natura gonalgica, ma, viceversa, ho pure incoraggiato una corsa retropodalica in soggetti avampodalici per ridurre la sintomatologia di un ampio spettro di problematiche di altra natura.
L’eventuale necessità di transizione va valutata caso per caso. La cosa fondamentale da tenere presente è che questi cambiamenti non si improvvisano, vanno sempre guidati e sviluppati con gradualità, perché si pagano sempre e comunque: il tipo di carico muscolare, articolare e legamentoso, cambia completamente. La transizione quindi deve essere valutata e guidata, e richiede tempo!
Ma quali sono le ragioni che sostengono l’avampodalico e con esso, spesso, la calzatura minimalista?
Ne parleremo nel prossimo articolo evidenziandone le criticità, di certo avrete capito che l’argomento è piuttosto complesso.