Nell’articolo precedente abbiamo illustrato le tesi che vengono portate a favore delle calzature minimaliste, evidenziando che in queste scarpe è assolutamente necessario sviluppare una corsa con appoggio avampodalico.
Tutti possiamo correre con scarpe minimaliste?
Premesso, come rilevato nei miei precedenti articoli, che a certe velocità non si ha nessuna necessità di operare una transizione di tipologia di appoggio, se non in casi particolari, la prima considerazione da farsi è: possiamo tutti imparare a correre in avampodalico, visto che queste calzature ce lo impongono?
Alcuni studi ci dicono che questo apprendimento non è per niente scontato, molti runner hanno dimostrato, nei test, una certa resistenza a questa transizione, indipendentemente dal tipo di scarpa che si indossa, segno che le caratteristiche della scarpa non determinano automaticamente una transizione avampodalica.
Se, però, vogliamo correre con le minimaliste, il gesto deve essere appreso! Un runner lento e pesante o con una scarsa biomeccanica potrebbe avere non pochi problemi a gestire questo gravoso cambiamento. Per gli altri vanno fatte alcune considerazioni, sempre ricordando che questa transizione deve avvenire con molta cautela.
In corse brevi, ripetute e lavori di qualità, le scarpe minimaliste si rivelano molto utili, consigliabili, indicate direi, per un miglioramento generale della biomeccanica, per un potenziamento della muscolatura intrinseca e per un lavoro di sensibilizzazione della propriocettività e coordinazione.
Ma quale distanza?
Allenamenti a piedi nudi e in avampodalico sono molto utili, chi di noi atleti o ex atleti pistaioli non ha corso a piedi nudi sui prati del campo: allunghi, progressioni, balzi e andature? In corse brevi, ripetute e lavori di qualità, le scarpe minimaliste si rivelano molto utili, consigliabili, indicate direi, per un miglioramento generale della biomeccanica, per un potenziamento della muscolatura intrinseca e per un lavoro di sensibilizzazione della propriocettività e coordinazione.
Nelle distanze più lunghe, una corsa avampodalica in scarpe minimaliste rischia di determinare problematiche, per altro ampiamente riscontrate statisticamente, prime fra tutte le fratture da stress, le tendinopatie e le fasciti plantari. È quindi utile sottolineare la pericolosità di utilizzare queste calzature, il cui uso, ripeto, è anche auspicabile per un certo tipo di lavoro, ma di certo non per lavori su medie-lunghe distanze.
Il piede deve essere protetto quando si vogliono macinare chilometri, e per alcuni questa necessità è più emergente che per altri. Abbastanza sintomatico che al picco della vendita di queste scarpe sia seguito prima un crollo di vendite e poi addirittura una class action contro di esse, che promettevano una riduzione di infortuni purtroppo non mantenuta.
La tesi di chi sostiene la teoria avampodalica è quella di una riduzione dell’impatto a terra, ma è proprio vero? A parità di ampiezza del passo il carico non può variare, si sposta semplicemente la localizzazione del suo picco: dalla corsa retropodalica sul tallone passa all’avampiede nella corsa avampodalica.
Che cosa comporta un drop zero?
La mancanza totale di drop può determinare un carico tendineo, muscolare e legamentoso diverso da quello abituale e quindi foriero di patologie. L’uso di drop gradualmente in riduzione, da 8 o 6 mm fino a 4 mm, può facilitare l’eventuale passaggio progressivo allo zero, ma è da valutare la reale necessità di completare questa transizione e, ripeto, la relativa contestualizzazione sulla durata, distanza e caratteristiche soggettive dell’atleta.
L’impatto a terra?
La tesi di chi sostiene la teoria avampodalica è quella di una riduzione dell’impatto a terra, ma è proprio vero? A parità di ampiezza del passo il carico non può variare, si sposta semplicemente la localizzazione del suo picco: dalla corsa retropodalica sul tallone passa all’avampiede nella corsa avampodalica.
Per quanto riguarda lo sviluppo dell’appoggio a terra, ritengo valida l’idea che con calzature tradizionali si sviluppi una regolarizzazione dell’appoggio, ma il problema è risolvibile variando tra più scarpe, tipi di superficie e modalità di allenamento.
Quanto è importante il comfort e il risparmio metabolico?
Il comfort risulta essere un’altra chiave nell’ambito del risparmio metabolico. È dimostrato che in una scarpa ritenuta soggettivamente più comoda dal runner si ha un maggior risparmio metabolico. Se la nostra percezione del tutto soggettiva ci trasmetterà un’idea di discomfort, di scarsa comodità nella scarpa minimal, il nostro corpo risponderà in maniera poco economica.
Per quanto riguarda la tesi del risparmio metabolico a favore delle scarpe minimal, dipende dalle scarpe con cui le si paragona: una Vibram sarà indubbiamente più leggera di molte delle calzature tradizionali e a questo si deve il suo risparmio metabolico, ma questo elemento è vincolato solo al peso. Una “tradizionale” superleggera dello stesso peso non determinerà una riduzione di efficienza metabolica.
Ma Bikila correva scalzo?
Abele Bikila ha corso scalzo e ha vinto la maratona di Roma, ma quattro anni dopo ha vinto nuovamente a Tokio, ha migliorato il suo tempo in condizioni precarie e aveva le scarpe. Nessuno, dai tempi di Bikila, ha più vinto una maratona senza le scarpe, e il record del mondo è stato fatto a Berlino con una scarpa con un drop di 10,5 mm. C’è bisogno di altro?
Quindi?
Ancora una volta è necessario utilizzare il buonsenso e valutare di cosa stiamo parlando. Parlare attualmente di minimalismo può voler dire molte cose: alcune scarpe sono minimaliste solo per nome e non per caratteristiche.
Impostare allenamenti in avampodalico a piedi scalzi è estremamente allenante e stimolante a livello biomeccanico, propriocettivo e coordinativo, ma occorre capire con che cosa stiamo correndo, per quanto tempo e chilometri vogliamo farlo, se abbiamo una reale necessità di correre avampodalici, quale tipo di gesto atletico sviluppiamo, e se, da retropodalici, siamo in grado di completare una necessaria transizione verso un tipo di corsa che la scarpa minimalista impone.
Negli Stati Uniti la vendita delle minimaliste più estreme si è notevolmente ridotto, chi le ha provate non le ha ricomprate, ci si è addirittura trasferiti verso un nuovo paradigma: quello del massimalismo.
Sarà solo marketing? Forse, probabilmente è stato lo stesso fenomeno che ha accompagnato il minimalismo? Lo vedremo quando il runner dovrà ricomprarsi una scarpa con cui si è trovato bene o meno, perché al di là di tutte le nostre disquisizioni, poi, ognuno di noi valuterà il grado di soddisfazione delle proprie calzature, la sintomatologia che ha evidenziato o magari alleviato, e deciderà per gli acquisti successivi.
C’è in noi runner la consapevolezza di essere dotati di una preziosa individualità psico-fisica e di una ipertrofica sensibilità del nostro corpo, che risponde agli stessi stimoli in modo diverso e assolutamente soggettivo. Sapremo sicuramente orientarci anche questa volta senza i condizionamenti del mercato.