I podisti sono consumatori attenti e vogliosi di provare le nuove tendenze del mercato, stimolati e informati sui nuovi prodotti e sui nuovi trend, consapevoli di quello che avviene nel loro corpo e documentati circa il rischio di infortuni che lo sport che praticano può determinare.
A partire dal 2009 si è assistito a un vero e proprio boom di scarpe minimaliste, affermatesi con la finalità di ridurre il rischio di infortuni che la corsa determina. Le più famose sono indubbiamente le Vibram 5 fingers, un orgoglio tutto italiano, ma molte altre tipologie si sono imposte, rendendo l’offerta particolarmente stimolante, ma anche complessa.
La risposta in termini di mercato è stata particolarmente reattiva, e molti, a partire dagli Stati Uniti, passando per il Regno Unito e i paesi del nord Europa, hanno comprato e provato queste calzature sulla scia di questa nuova tendenza. Sulla rete si è assistito a un vero boom di articoli che promuovevano Chi running, Pose running, Barefoot running… In Italia si è arrivati più tardi, ma con grande entusiasmo, prima a osservare il fenomeno, e poi a prenderne parte.
Queste scarpe si contraddistinguono per avere zero drop, drop ridotto o addirittura drop negativo, un’intersuola sottile e sensibile, un toe box sull’avampiede spesso ampio, un feeling di corsa simile a quello che avremmo senza calzatura, insomma… la sensazione è quella di correre a piedi nudi.
Minimal running: quale idea lo sostiene?
Secondo i sostenitori della calzatura minimalista il controllo che assicurano le scarpe tradizionali dalla fase di contatto iniziale a quella propulsiva porta a un indebolimento della muscolatura e aumenta l’iperpronazione. Inoltre, la scarpa tradizionale determina una regolarizzazione dell’appoggio e quindi una costante e ripetuta localizzazione dei picchi e delle linee di carico. Nel barefoot o minimalist running, invece, gli appoggi sono sempre diversi e questo permette una più varia distribuzione dello stress su diverse aree di carico, evitandone quindi la localizzazione.
Per quanto riguarda lo stress da impatto a terra, si sostiene che l’ammortizzazione che assicurano le scarpe tradizionali non lo riduca, e anzi che risulti un picco maggiore sulla curva delle forze di reazione al suolo. Ne consegue che l’effetto che le scarpe tradizionali determinano sarebbe assolutamente l’opposto rispetto alla loro finalità, vale a dire un incremento d’impatto al suolo.
Dal punto di vista propriocettivo, abbiamo in precedenza ricordato che il piede è organo non solo di moto ma anche di senso, e lo spessore delle suole tradizionali, piuttosto elevato, altera e riduce le capacità sensoriali del piede a terra. Infine, sempre secondo i sostenitori del barefoot, le scarpe tradizionali hanno una minor efficienza metabolica rispetto a quelle minimaliste. Questi elementi dovrebbero prevenire o ridurre gli infortuni dovuti alla corsa.
Come si deve correre con una scarpa minimalista?
Avete provato a correre a piedi nudi sull’asfalto? La prima cosa da tenere presente è che con una scarpa come questa non si può correre in retropodalico per due motivi:
- L’idea di base che la sostiene è una corsa di tipo avampodalico, a cadenza rapida e falcata ridotta.
- Questa calzatura impone (ripeto: impone) un appoggio necessariamente di tipo avampodalico per evitare infortuni, perché il tallone non può supportare, nella corsa, un carico di appoggio così importante senza avere una protezione nell’intersuola, protezione che una scarpa minimal non ha.
Di quali scarpe stiamo parlando?
È importante considerare, però, che la corsa minimalista va declinata in una varietà di calzature che offrono differenze nel drop, drop negativi, diversa larghezza nel toe box, differenze di spessore, forma, tagli e materiali dell’intersuola, o ancora di caratteristiche nella tomaia, nei contrafforti, nei flywire ecc.. Per questo è difficile parlare adesso di minimalismo e su queste basi definire criticità tipiche di alcune calzature e non di altre nell’ambito del minimalismo.
Allo stesso modo è utile ricordare che l’offerta di calzature per la corsa è talmente varia che anche la definizione di calzatura “tradizionale” si presta a essere interpretata: per esempio, se risulta intuitiva la differenza tra una calzatura stabile A4 e una minimalista, discorso a parte potrebbe essere fatto per una superleggera da gara rispetto a una scarpa minimalista dello stesso peso.
Inoltre, va sottolineata una certa tendenza a utilizzare elementi tipici della filosofia che ha contraddistinto il minimalismo anche sulle scarpe comunemente definite “tradizionali’” come una progressiva riduzione del peso delle calzature, grazie ai nuovi materiali, e di drop. Ulteriori complessità emergono quando si tratta di calzature con caratteristiche intermedie, come drop a 4-6 mm su modelli più o meno strutturati e più o meno leggeri.
È evidente che una classificazione delle calzature risponde a una necessità di semplificazione che il runner, soprattutto il neofita, necessita, ma le calzature hanno spesso caratteristiche intermedie o miste che le rendono difficilmente schematizzabili. I contorni quindi sono un po’ sfumati e il confronto più complesso.
Nel prossimo articolo evidenzieremo invece alcune criticità tipiche della calzatura minimalista, approfondendo ulteriormente l’argomento sul “perché non si deve correre con una scarpa minimalista?”.